Quello che segue è il testo dell’intervento del compagno Dario Antonelli della FAI dal palco del primo maggio anarchico a Carrara.
Buon Primo Maggio compagne e compagni, e questo per noi non è un saluto o un augurio qualsiasi, è un’affermazione che rivendica il valore rivoluzionario e libertario di una giornata di lotta che da centotrent’anni è repressa nel sangue dai governi.
Sì, perché ci sono paesi in cui le manifestazioni del Primo Maggio sono ancora vietate, dove in questo giorno la polizia bastona i lavoratori che scioperano e scendono in strada, in cui si spara sui manifestanti, in cui chi vuole affermare la propria libertà deve rispondere con determinazione alla violenza dello Stato.
Abbiamo visto a quale punto possa arrivare in Egitto la dittatura militare di Al-Sisi per reprimere i lavoratori e le loro organizzazioni. Vediamo come da mesi in Turchia il governo abbia scatenato una vera e propria guerra contro i rivoluzionari, il movimento curdo e la popolazione stessa mettendo in atto pratiche di guerra, con coprifuoco, rastrellamenti, militanti politici e sindacali uccisi o scomparsi, bombe nelle piazze e veri e propri bombardamenti dell’esercito su quartieri e villaggi insorti. Per questa giornata ad Istanbul, in Turchia, il governo è tornato a vietare Piazza Taksim dove il Primo Maggio del 1977 vennero uccisi 34 manifestanti dal terrorismo di Stato. Oggi ad Istanbul chi vorrà manifestare nel centro della città dovrà affrontare la polizia e in questa lotta troverà al proprio fianco gli anarchici che hanno deciso di sfidare i divieti.
Ma certo sarà un Primo Maggio caldo anche in Francia, dove negli ultimi mesi, nonostante le dure misure repressive e lo stato d’emergenza imposti dal governo socialista, è in atto una vera e propria rivolta sociale animata da lavoratori e studenti, che si è accesa in opposizione ad una riforma del lavoro che è in tutto simile al Jobs Act di Renzi.
Ma non c’è bisogno di andare lontano, né certo di guardare a paesi come l’Egitto oppressi da feroci dittature per vedere come lo Stato sia pronto ad usare ogni mezzo per reprimere. Questo accade anche qui e lo sappiamo bene perché molti di noi lo pagano sulla propria pelle. L’altro ieri a Pisa sarebbe dovuto venire Renzi per celebrare i 30 anni di Internet, non si è presentato perché probabilmente temeva le annunciate contestazioni. La polizia ha comunque voluto dare una lezione alla piazza dei contestatori, utilizzando una violenza che da anni non si vedeva in città, contro chi semplicemente voleva entrare nel palazzo del CNR dove era presente il Ministro dell’Istruzione Giannini. Ma questo non accade solo nei momenti di contestazione in cui il conflitto è in qualche modo preannunciato. Questo accade anche in occasione del Primo Maggio, giornata che partiti, sindacati di Stato e governi avevano creduto di aver ormai totalmente normalizzato e assorbito nella ritualità istituzionale.
Lo scorso anno infatti era Milano ad essere completamente militarizzata in occasione dell’EXPO, la fiera del capitalismo globale, vetrina degli attuali modelli di dominio e sfruttamento, provocatoriamente inaugurata proprio il Primo Maggio. Un anno fa a Milano il corteo del Primo Maggio contro l’EXPO è riuscito a giungere alla piazza conclusiva senza essere disperso dalla polizia solo grazie alla determinazione di chi era sceso in piazza, dello spezzone dei lavoratori in particolare, al quale prendevamo parte come FAI al fianco dell’USI.
Se è ancora vivo il carattere sovversivo e rivoluzionario del Primo Maggio è perché è ancora viva nelle lotte che portiamo avanti ogni giorno l’aspirazione alla liberazione sociale. È viva nella pratica dell’azione diretta, nell’organizzazione dal basso, nell’autogestione delle lotte, degli spazi e dei tempi di vita, nella sperimentazione che sorge spontanea come forma di resistenza in tempi come questi segnati dalla miseria e dalla disoccupazione.
Da anni ormai agitando lo spettro della crisi economica i governi che si sono susseguiti al potere stanno imponendo quelle politiche di macelleria sociale che chiamano austerità.
Le possono chiamare come vogliono, ma sappiamo bene cosa sono.
Sono politiche di rapina, perché la riduzione dei salari e delle pensioni, così come i tagli ai servizi sono fatti con manganelli e pistole alla mano.
Sono politiche assassine perché i tagli alla sanità, il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, l’aumento dell’età pensionabile, così come la difesa degli interessi dei magnati delle produzioni nocive che devastano i territori e la salute di chi li abita oltre ad avvelenare chi ci lavora, sono un vero e proprio programma di sterminio.
Sono politiche di guerra, così le definì nel 2012 l’allora Presidente del Consiglio Monti, riferendosi alle cosiddette misure di austerità, perché sanno che si tratta di una vera e propria guerra sociale scatenata dal governo contro la classe lavoratrice e gran parte della popolazione. Lo sanno bene, perché mentre dicono che i soldi non ci sono, che siamo tutti sulla stessa barca, che ci vogliono ancora sacrifici per uscire dalla crisi, continuano a fare profitti preparando la guerra.
Ogni anno l’ammontare della spesa militare è esorbitante, in quella somma sono anche compresi i milioni che finanziano l’operazione “Strade sicure”. Sì, perché oltre alla guerra per il controllo delle risorse e per il controllo delle zone di influenza, che si combatte fuori dai confini, c’è quella interna per il controllo sociale. Ma la guerra esterna e quella interna sono distinte da un confine sempre più labile, queste infatti ormai si combattono con gli stessi mezzi. Gli stessi militari che vengono inviati a combattere in altri paesi, ad opprimere le popolazioni locali, sono quelli che girano in divisa, armati di mitra, nelle strade delle nostre città, che presidiano le stazioni. Questi assassini in uniforme vengono addestrati anche a tattiche antisommossa. Questi assassini in uniforme vengono già schierati contro chi protesta, contro i movimenti, come è successo in Campania, come è successo durante l’EXPO a Milano, come succede in Val di Susa contro il movimento NO TAV.
La militarizzazione delle città e dei territori, giustificata dalla lotta al terrorismo e alla criminalità, è l’aspetto più evidente della militarizzazione dei rapporti sociali. Questa è accompagnata dalla propaganda di guerra che fabbrica il nemico esterno da cui dobbiamo difenderci e dalla retorica interclassista della coesione e della pace sociale per “far ripartire il paese”, per “risollevare l’economia”, ma a risollevarsi sono solo i profitti. Per questo limitano le libertà sindacali sui posti di lavoro, perché vogliono lavoratori obbedienti e disciplinati. Per questo creano schiere di disoccupati e di precari in lotta fra loro, perché vogliono donne e uomini impauriti e ricattabili disposti a lavorare di più ed essere pagati di meno.
Tutto questo si colloca nel quadro di un generale approccio autoritario e militare assunto dal governo per portare avanti le proprie politiche.
In molti paesi europei e non solo, dopotutto, da anni il sistema politico è in crisi, giornalisti e politologi l’hanno chiamata “crisi di legittimità”, “crisi della democrazia rappresentativa”. Ma molto semplicemente questo significa che non c’è più fiducia nelle istituzioni. Anche perché per attuare le politiche antipopolari i governi hanno eroso e cancellato ogni strumento di mediazione del conflitto sociale, cancellando ogni consenso nei confronti delle proprie istituzioni, mostrando il vero volto dello Stato, quello della violenza. È un conflitto scatenato dalla classe dirigente, è la guerra sociale per difendere i privilegi e garantire i profitti.
L’internazionalismo, che è carattere centrale del Primo Maggio va riaffermato con forza. In particolare in un periodo come questo, segnato dalla guerra, in cui il militarismo torna ad invadere la società con la repressione. Un periodo in cui gli Stati erigono nuovi muri per ripristinare le frontiere in Europa. Frontiere che in realtà non erano mai state cancellate, ma solo aperte alle merci e alle persone con i documenti in regola. Mentre le masse dei senza documenti, degli illegali, dei clandestini, venivano rinchiuse nei CIE, uccise dalle polizie di frontiera, affogavano nel Mediterraneo, venivano sequestrate e sfruttate nei modi più brutali. Un periodo in cui la guerra vera e propria, nell’attuale contesto di competizione tra gli Stati, è ormai banalizzata nel dibattito pubblico. Si parla della possibilità di invadere la Libia con le truppe come se fosse una cosa normale. E dopotutto se ci pensiamo bene è una cosa normale, è normale per uno Stato perseguire le proprie politiche utilizzando la guerra, servendosi dell’apparato militare di cui dispone per costituzione. Dopotutto a cosa serve l’esercito se non a fare la guerra?
Che sia la guerra lontana dai riflettori e dalle telecamere che l’Italia sta già combattendo in Libia dal 2011 o che sia la guerra benedetta dai media con il ritorno delle truppe d’occupazione sul “bel suol d’amore” di Tripoli, in Libia.
Certo sta a noi metterci in mezzo.
Proprio ora che il pacifismo istituzionale è sparito, sgretolato o arruolato al fianco del governo, ora che la propaganda ufficiale dice che dobbiamo essere tutti uniti contro il nemico della civiltà occidentale, il Califfato, ora che i governi europei schierano i militari nelle strade ed emanano leggi speciali in nome della lotta al terrorismo, ora che tutti sono chiamati a prender parte alla guerra contro i nuovi barbari, sta a noi dire le cose chiaramente.
Sta a noi fare appello a disertare.
Il vero Califfato che dobbiamo abbattere è il regime che ci governa, con il culto dello Stato, i riti e i simboli laici di cui governanti, tecnocrati, magistrati e poliziotti si ammantano per dare legittimazione al proprio potere. Il Califfato da abbattere è il Vaticano che sulla menzogna millenaria della religione ha costruito un potere assoluto che ancora oggi continua ad opprimere milioni di persone.
I terroristi da cui guardarsi siedono al Consiglio dei Ministri. Perché è fondata sul terrore la legittimità di un governo che priva di mezzi di sostentamento la popolazione con tagli, miseria e disoccupazione per far accettare, facendo gioco sulla paura, condizioni di vita e di lavoro sempre peggiori. E con il terrore e la violenza vengono applicate queste politiche, in Italia così come in altri paesi.
I barbari che dobbiamo cacciare sono i padroni, gli affaristi, gli speculatori e i capitalisti che ci sfruttano e che devastano le nostre vite e i nostri territori.
Bisogna parlare chiaramente anche perché in questo contesto si può trovare in molte situazioni terreno fertile per lo sviluppo dell’antimilitarismo. Abbiamo visto infatti negli ultimi anni svilupparsi lotte popolari caratterizzate in senso antimilitarista. La lotta contro il MUOS in Sicilia ad esempio, la stazione di telecomunicazioni satellitari della marina statunitense, che dovrebbe servire a dotare l’esercito USA di un sistema di comunicazione satellitare globale che indirizzerebbe tra le altre cose anche i bombardamenti dei droni, è riuscita per ora ad impedire la messa in funzione dell’impianto, danneggiando la strategia militare statunitense. Ma anche lo sviluppo in Sardegna delle lotte contro le basi militari e le esercitazioni di guerra sono un’esperienza molto importante.
Il nostro ruolo come anarchici è quindi essenziale oggi, perché solo chi ha ben chiaro il ruolo dello Stato, il ruolo dei governi, e mira ad abbattere queste strutture di potere, può avere una posizione chiara su questioni che sono connaturate allo Stato stesso: le frontiere, la guerra, il militarismo.
Come riporta il manifesto che presenta la manifestazione di oggi, “gli anarchici non hanno politica estera”, questo è naturale, perché non aspirando al governo e al contrario convinti della necessità di abolirlo, non abbiamo niente a che spartire con chi ha il potere di fare “politica estera”. Non cerchiamo alleati tra i governi, non cerchiamo punti di riferimento tra le potenze che si spartiscono il mondo, neanche se si presentano come antimperialiste. La nostra bussola è la solidarietà internazionale.
La solidarietà internazionale significa riconoscersi con tutti coloro che nel mondo sono soggetti alle nostre stesse condizioni materiali di oppressione e sfruttamento, che siano i lavoratori iraniani, la popolazione Mapuche nell’America del Sud o i migranti che vengono bloccati alle frontiere della Fortezza Europa. Questo ci porta ad essere al fianco di chi cerca di abbattere concretamente le frontiere, in Grecia e nei Balcani come in Francia. Questo ci porta ad essere al fianco delle popolazioni che sono schiacciate dalla guerra e tentano di resistervi, come chi diserta in Ucraina il conflitto che vede contrapporsi le potenze imperialiste di Russia, Unione Europea e NATO. Questo ci porta ad essere al fianco delle popolazioni che in Rojava, il Kurdistan occidentale in territorio siriano, si trovano a lottare contro il Califfato dell’ISIS, così come contro il regime di Assad e la Turchia che è membro della NATO. Popolazioni che non combattono per conquistare territori ma per realizzare e difendere forme di autogoverno e di autogestione. Nel caso della Rojava sappiamo che la situazione di guerra crea grandi contraddizioni, non troppo distanti da quelle che si ponevano nel contesto rivoluzionario della Spagna del 1936. Anche per questo è chiaro che in Rojava non saranno né i programmi di partito, né nuovi governi, né le bombe della Russia o degli Stati Uniti a permettere la costruzione di una società libera, ma potrà essere solo la forza collettiva di coloro che vorranno prendere in mano la propria vita e difendere la libertà di decidere in autonomia quali forme sociali e politiche darsi.
Sta a noi fare appello a disertare. A disertare la guerra in ogni sua forma. Sia essa la guerra santa in difesa dell’Occidente, o quella santissima per gli interessi dell’ENI in Libia. Che sia lo sforzo per far “ripartire l’Italia” o il razzismo attraverso il quale cercano di spezzare la solidarietà di classe. Disertiamo la militarizzazione, la devastazione dei territori e della nostra salute. Disertiamo il lavoro che ci massacra.
Certo questo non resta che uno slogan se non riusciamo a trasformare queste parole in una pratica collettiva. Perché scegliere individualmente di non collaborare non basta, non può bastare.
Nei nostri metodi, nelle nostre proposte molti possono trovare sia elementi su cui basare la propria lotta quotidiana sia una prospettiva di liberazione e trasformazione sociale. Io credo che ora rispetto anche soltanto a qualche anno fa abbiamo come movimento anarchico grandi spazi di intervento. Bisogna avere il coraggio di confrontarsi tra compagni per organizzarsi ed essere capaci di costruire nuovi terreni di lotta, relazionandosi con la realtà, dando come sempre il proprio contributo in senso autogestionario e rivoluzionario, per un mondo nuovo.
Buon Primo Maggio compagne e compagni
Viva il Primo Maggio
Viva l’anarchia